Transessuale cioè "normale", ma cos' è la normalità?

Antonio Sciotto

"Certo, un insulto ti può ferire, ma quello che trovo più offensivo è che tante persone possano ancora definirmi 'un' trans". Elena Trimarchi, fiorentina, calca molto su quell'articolo maschile: "Ho sofferto per diventare quello che mi sono sempre sentita, una donna, e la società italiana mi tratta come se appartenessi a un branco indifferenziato, un fenomeno da baraccone utile solo per la cronaca nera o il gossip. Per l'informazione siamo 'il trans rapinato', o 'violentato'. Oppure prostitute, l'estremo rifugio per mariti annoiati".

Da Catania a Genova, da Taranto a Padova, i nostri concittadini transgender stanno combattendo da anni una battaglia silenziosa, che a piccoli passi li sta portando verso una piena integrazione. Non è facile, però: la strada è lunga, è fatta di insulti e solitudine, di incomprensioni familiari, di violenze e discriminazioni, soprattutto sul lavoro. Anche di omicidi: siamo il paese europeo, insieme alla Turchia, con il maggior numero di persone trans uccise nel 2013 (5 sul totale mondiale di 238, dati Tgeu-Transgender Europe).

Ma accanto ai drammi e alle sofferenze, ci sono storie di riscatto. Negli uffici pubblici, nelle fabbriche, nelle università, chi è transessuale tende a non nascondersi più, ma anzi reclama diritti. Come Vittoria Vitale, catanese di 24 anni. Studia Scienze della Comunicazione nell'ateneo della sua città, e ha avviato la transizione verso una piena identità femminile a 18 anni. Ma sulla carta di identità è ancora 'Giuseppe', e questo la espone a situazioni imbarazzanti, a volte perfino umilianti. 

"A un esame – racconta – il professore faceva l'appello: quando ha chiamato 'Giuseppe', e io mi sono alzata, tutti si sono voltati e mi hanno squadrata dalla testa ai piedi". Sostenuta da un'associazione studentesca Lgbtqi, Vittoria ha fatto una piccola rivoluzione: come è già accaduto per gli universitari di Torino, Bologna, Napoli, Urbino, è riuscita a ottenere dal rettore un libretto provvisorio in cui è registrata con il suo nome femminile.

"Ci dispiace, per lei non c'è posto"

Ma il problema non è solo quello di garantire la privacy alle Poste, in ospedale o in palestra: la discrepanza tra la carta di identità e l'aspetto fisico sembra essere determinante anche per molti datori di lavoro. Michela Angelini, livornese, ha lanciato su Change.org una petizione per l'approvazione del disegno di legge 405, che prevede la possibilità di ottenere il cambio di sesso e di nome sui documenti indipendentemente dall'intervento chirurgico sui genitali, e senza l'autorizzazione del giudice (l'attuale normativa, risalente al 1982, impone di fatto questi passaggi). Basterebbe insomma un iter certificato dal sistema sanitario. La proposta di modifica, sottoscritta da Sergio Lo Giudice (Pd) e Alberto Airola (M5S), è anche al centro di una campagna del Mit (Movimento italiano transessuali) dal titolo "Un altro genere è possibile". 

Michela è veterinaria, e spiega di aver sostenuto molti colloqui di lavoro, tre dei quali andati a buon fine: "Ma non mi avevano ancora chiesto i documenti: quando ho chiarito che sono transgender, il posto è andato ad altri". Lei vorrebbe vivere una vita "normale": da qualche anno si è legata a Egon Botteghi, pure lui transessuale, ma con un cammino inverso, da donna a uomo. Egon ha 42 anni e due figli piccoli, Pietro e Viola, di 9 e 6 anni: ha dovuto spiegare loro che la mamma, pur "trasformata", di fatto rimarrà sempre la mamma. I bimbi hanno accettato, e adesso hanno un ottimo rapporto anche con Michela.

Secondo i dati diffusi da Arcigay e Mit nel manuale "Rights at work", in Italia negli ultimi 10 anni il 13% di gay e lesbiche ha visto respinta la propria candidatura a un colloquio di lavoro a causa del proprio orientamento sessuale, e il 4,8% dichiara di essere stato addirittura licenziato. Percentuali che per chi è transgender lievitano rispettivamente fino al 45% e 25%. Il 26,6% delle persone Lgbtqi decide quindi di non rivelarsi sul luogo di lavoro. Elena Trimarchi racconta che a lei hanno sempre sbattuto la porta in faccia, sia a sinistra che a destra: "Mi sono rivolta alle coop rosse, senza risultati. Poi mi ha assunto, in nero, una famiglia bene, come segretaria di un noto studio medico: i figli hanno saputo che ero attivista e mi hanno cacciata via". Solo la politica (quasi un paradosso) le ha offerto un riscatto: Sel l'ha presentata alle ultime comunali di Firenze, e Elena ha raccolto parecchi voti.

Stesso destino di precarietà è toccato ad Alexandra Petanovic, di Belgrado, fuggita da una Jugoslavia ormai in disfacimento, nel 1994, durante la guerra. Nei primi anni Ottanta teneva i capelli lunghi, i jeans attillati e gli stivaletti a mezza coscia in un paese che perfino negava l'esistenza degli omosessuali: "A 18 anni mi dovetti arruolare nell'Armata popolare jugoslava, super machista. Un capitano si invaghì di me, ma dopo due mesi mi esonerarono, diagnosticandomi una 'invertio sexualis'". 

In Italia Alexandra compie la sua transizione, si laurea e prende il dottorato all'Università pontificia, scrive un saggio accademico su Elena Dragas – "di origini serbe, l'ultima imperatrice bizantina" – ma quando chiede un posto all'università l'incanto finisce. Oggi fa la badante. Due anni fa è stata protagonista di un grave episodio di transfobia ad Ardea, vicino Roma. Un gruppo di naziskin locali l'ha prima insultata, e poi le ha fatto trovare l'auto devastata, con due banane e un cumulo di feci sul tettuccio. Ovviamente sono partite le denunce. Ha raccontato la sua storia nel libro autobiografico "Requiem rosa".

"Però noi ora stiamo bene"

Differenti, quasi con un lieto fine, le storie di altri transgender, che dopo una sofferta transizione sono riusciti a integrarsi. Alessandro Iuliano, 41enne di Padova, dichiara di non aver mai subito discriminazioni: "Forse perché chiarisco sempre chi sono, senza pretendere che gli altri sappiano già tutto di me". Alessandro lavora da 17 anni in una impresa metalmeccanica di oltre 300 dipendenti, è assistente post-vendita. "Deciso di compiere il percorso, ho incontrato il direttore generale, accompagnato da un sindacalista Cisl. Poi ho fatto un lungo tour, ufficio per ufficio: ho spiegato che 'Lisa' andava via e che ora c'era Alessandro. L'hanno presa tutti bene, anche il presidente".

Stessa accoglienza positiva per Angelo Borrelli, napoletano di 36 anni. Dal 2001 lavora per una grossa catena di ristorazione autostradale, a Parma. "Ho compiuto il percorso continuando a spostarmi dalla cassa al bancone, con i manager, i colleghi e i clienti che mi seguivano giorno per giorno. Se devo essere sincero, ho ricevuto solo incoraggiamenti: diversi camionisti si sono complimentati, dicendo che ho avuto coraggio".

Ben inseriti, a Cagliari, sono Arianna Ghiglieri e Marco Michele Angioni, entrambi transgender e legati da una relazione sentimentale: 35 anni lei e 24 lui, hanno dovuto affrontare nell'adolescenza la contrarietà di alcuni familiari, ma poi tutto è filato liscio. Arianna segue le istruttorie per un'agenzia di finanziamenti: "Mai subito discriminazioni sul lavoro – spiega – ma so bene che il problema per altri esiste, e infatti partecipo alle iniziative pubbliche per i nostri diritti". 

Marco è dipendente di una nota catena di ristorazione: "Inviai un curriculum al maschile – dice – e rivelai che i documenti erano al femminile solo alla fine del colloquio. Il capo, che aveva già lavorato negli Usa e a Milano, mi rispose: 'Va bene, e quindi? Ritorna domani che così cominciamo'".

Difendere le persone trans può diventare una professione, e così Alessandra Gracis, avvocatessa trevigiana, anche lei transgender, ha tra i suoi clienti una ventina di ragazze operate in tutta Italia: cause avviate contro diversi ospedali, per gravi danni riportati in seguito alla vaginoplastica. "Il problema – spiega – è che dovremmo creare nel nostro Paese, così come avviene all'estero, un unico centro nazionale iper specializzato: da noi i chirurghi fanno pochi interventi l'anno in cento città".

Alessandra ha sposato Roberta prima di iniziare la transizione, ma per ora ha deciso di non adeguare i propri documenti: "Secondo la legge dopo il cambio di sesso si annulla il vincolo coniugale, ma una recente sentenza della Corte costituzionale ha ritenuto questa norma illegittima. A questo punto aspetto una nuova legge: non vorrei che la mia compagna perdesse diritti preziosi come la pensione di reversibilità".

Una spiccata dedizione verso gli altri ha anche Miki Formisano, rappresentante di commercio che vive a Taranto, vicepresidente di Nps Italia (Network persone sieropositive). Miki ha attraversato una giovinezza turbolenta, fatta di eroina, rapine e carcere: ha contratto l'Hiv, tra i primi in Italia, ed è miracolosamente sopravissuto alla malattia conclamata. Oggi sta bene, va regolarmente in palestra, ha trovato una compagna, Marilena: "Se negli anni Ottanta non avessi vissuto l'essere transgender come una colpa innominabile, perché mancavano del tutto le informazioni, sono certo che non sarei precipitato nella droga". Ma si è riscattato: aiuta le persone sieropositive, anima campagne di sensibilizzazione nelle scuole, ha scritto un libro con la sua storia, "Resto umano".

"In tv non ve lo dicono, ma invecchiamo pure noi"

"Costa molto essere autentica, signora mia, e in questa cosa non si deve essere tirchie. Perché una è più autentica quanto più assomiglia all'idea che ha sempre sognato di sé stessa". Agrado, straordinaria transgender dell'almodovariano "Tutto su mia madre", non ha dubbi. Ma appunto, la vita ti può bruciare.

Leda Peirano, camionista di Savona, sin da quando aveva 13 anni ama travestirsi, unico sfogo al suo desiderio di essere donna. Ha continuato a farlo in età adulta, sempre in segreto, perché nel frattempo aveva preso moglie. Quando la sua compagna lo ha scoperto, l'ha lasciata in tronco, e oggi neanche le tre figlie – di 19 anni, 17 e 11 – vogliono più incontrarla. "Sono sola, ma finalmente me stessa: una donna libera", dice. "Quando vado a scaricare il camion mi presento con garbo, e nessuno fa battute: se spieghi chi sei, gli altri ti rispettano. Con le mie ragazze però non è così facile, troppi sentimenti in mezzo, ci siamo fatte troppo male: spero un giorno di recuperarle".

Mirella Izzo, di Genova, storica attivista transgender, non è certo vecchia. Ha da poco passato i 55 anni, ma ci tiene a segnalare agli italiani che "anche le persone trans invecchiano". "Non perché a un certo punto non ci vedete più in tv, rimpiazzate da altre più giovani, significa che siamo sparite – osserva sarcastica – Abbiamo una vita oltre le tette. Ma spesso la passiamo in solitudine, malate e con pochi soldi, senza nessuno che ci assista". 



Mirella ha gravi problemi di salute, vive con l'amatissima cagnetta Milky. Reagisce al dolore scrivendo: un libro e già uscito ("Oltre le gabbie dei generi. Il manifesto Pangender") e ne sta ultimando un altro, sul femminicidio. "Sono invalida, ma le discriminazioni e le difficoltà che ho incontrato non fanno punteggio, lo Stato non ti risarcisce. Credo che si dovrebbero riformare i parametri, riconoscendoci un 'bonus transgender': lo avevo fatto inserire in una proposta di legge, quando Vladimir Luxuria era in Parlamento, ma poi non se ne è fatto più nulla".

2 commenti:

  1. si può lottare per l'uguaglianza senza annullare l'identità di genere che non è "prigione" ma fa parte del nostro essere persone, ci sono infiniti modi di essere uomo e donna (sia cisgender sia transgender) alcuni più frequenti staticamente di altri ma tutti legittimi e autentici, almeno dovrebbero esserlo

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  2. E chi ha mai detto che annullare il proprio sesso biologico sia obbligatorio?

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